Pubblichiamo gli spunti di meditazione che don Mario Antonelli, docente di Teologia del Seminario, ha offerto alla comunità del Quadriennio Teologico, venerdì mattina 17 febbraio, nell’itinerario di preparazione alla visita apostolica del prossimo 25 marzo 2017.

«Io vado a pescare».Tratti di risolutezza nel magistero di Francesco

  1. La riforma della Chiesa che Francesco sogna e promuove resta ultimamente sospesa al suo uscire missionario. Ecco un primo evidente aggiornamento del Vaticano II, peraltro già anticipato nel testo-madre del pontificato stesso di Francesco (l’Evangelii nuntiandi): il legame indissolubile tra missione e riforma della Chiesa. Quella riforma permanente che il Vaticano II prospettava nella revisione dei rapporti ad intra e nell’aggiornamento del rapporto con il mondo, viene ora presentata nel suo criterio proprio e nella sua finalità propria: il criterio è missionario, la finalità è missionaria.
  2. La riconversione dello sguardo della Chiesa «in uscita» versoi poveri costituisce un ulteriore tratto di aggiornamento del Vaticano II; anche in questo caso, tale riconversione era stata prospettata già nell’Evangelii nuntiandi là dove, all’inizio del I capitolo, Paolo VI pone quale scena decisiva per cogliere il senso dell’evangelizzare l’icona di Lc 4,16ss: «Lo Spirito del Signore è sopra di me…». «[…] la bellezza del Vangelo non sempre può essere adeguatamente manifestata da noi, c’è però un segno che non deve mai mancare: l’opzione per gli ultimi, per quelli che la società scarta e getta via» (EG 198).
  3. La gioia del Vangelo può «profumare» la vita del Popolo di Dio a questa condizione: che si venga via da quel sapere assoluto che affossa la storia e la sua verità nel cielo di idee ormai mute, incapaci di significare nella vita la bellezza del Vangelo di Dio. Il riconoscimento dellostatuto intimamente pastorale della dottrina passa di qui: anche in questo, Francesco riprende l’intuizione di Giovanni XXIII che aveva ispirato il concilio Vaticano II (cfr il discorso inaugurale dell’11 ottobre 1962 Gaudet mater ecclesia). Onorare il senso pastorale della dottrina implica l’abbandono di un habitus magisteriale e ministeriale che pre-vede la dottrina idealizzata in un sua sacralità discriminante e non vede più la storia nella quale e a favore della quale la dottrina è venuta a parola. Questa consuetudine non potrebbe poi che forzare l’applicazione di quella dottrina in una disciplina in fondo dimentica della storia di Gesù e della storia sempre laboriosa di ciascuno.

«Il ventunesimo Concilio Ecumenico — che si avvale dell’efficace e importante aiuto di persone che eccellono nella scienza delle discipline sacre, dell’esercizio dell’apostolato e della rettitudine nel comportamento — vuole trasmettere integra, non sminuita, non distorta, la dottrina cattolica, che, seppure tra difficoltà e controversie, è divenuta patrimonio comune degli uomini. Questo non è gradito a tutti, ma viene proposto come offerta di un fecondissimo tesoro a tutti quelli che sono dotati di buona volontà.

Però noi non dobbiamo soltanto custodire questo prezioso tesoro, come se ci preoccupassimo della sola antichità, ma, alacri, senza timore, dobbiamo continuare nell’opera che la nostra epoca esige, proseguendo il cammino che la Chiesa ha percorso per quasi venti secoli.

Ma il nostro lavoro non consiste neppure, come scopo primario, nel discutere alcuni dei principali temi della dottrina ecclesiastica, e così richiamare più dettagliatamente quello che i Padri e i teologi antichi e moderni hanno insegnato e che ovviamente supponiamo non essere da voi ignorato, ma impresso nelle vostre menti.

Per intavolare soltanto simili discussioni non era necessario indire un Concilio Ecumenico. Al presente bisogna invece che in questi nostri tempi l’intero insegnamento cristiano sia sottoposto da tutti a nuovo esame, con animo sereno e pacato, senza nulla togliervi, in quella maniera accurata di pensare e di formulare le parole che risalta soprattutto negli atti dei Concili di Trento e Vaticano I; occorre che la stessa dottrina sia esaminata più largamente e più a fondo e gli animi ne siano più pienamente imbevuti e informati, come auspicano ardentemente tutti i sinceri fautori della verità cristiana, cattolica, apostolica; occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale».

Giovanni XXIII, Gaudet mater ecclesia

La Cattedra è – diciamolo ancora una volta – simbolo della potestà di insegnamento, che è una potestà di obbedienza e di servizio, affinché la Parola di Dio – la sua verità! – possa risplendere tra di noi, indicandoci la strada. Ma, parlando della Cattedra del Vescovo di Roma, come non ricordare le parole che Sant’Ignazio d’Antiochia scrisse ai Romani? Pietro, provenendo da Antiochia, sua prima sede, si diresse a Roma, sua sede definitiva. Una sede resa definitiva attraverso il martirio con cui legò per sempre la sua successione a Roma. Ignazio, da parte sua, restando Vescovo di Antiochia, era diretto verso il martirio che avrebbe dovuto subire in Roma. Nella sua lettera ai Romani si riferisce alla Chiesa di Roma come a “Colei che presiede nell’amore”, espressione assai significativa. Non sappiamo con certezza che cosa Ignazio avesse davvero in mente usando queste parole. Ma per l’antica Chiesa, la parola amore, agape, accennava al mistero dell’Eucaristia. In questo Mistero l’amore di Cristo si fa sempre tangibile in mezzo a noi. Qui, Egli si dona sempre di nuovo […]. Presiedere nella dottrina e presiedere nell’amore, alla fine, devono essere una cosa sola: tutta la dottrina della Chiesa, alla fine, conduce all’amore. E l’Eucaristia, quale amore presente di Gesù Cristo, è il criterio di ogni dottrina.

Benedetto XVI – 7 maggio 2005

Troviamo qui, in una forma molto semplice, ciò che il Vaticano II chiama “pastoralità”: ciò di cui è questione nel Vangelo di Dio è già all’opera in colui che lo riceve; il che implica o richiede un singolare “adattamento” tra il mittente (destinatore), l’apostolo, e il ricevente (destinatario), la sua comunità, “adattamento” che Gaudium et spes chiama “accomodata praedicatio“: “Tale adattamento della predicazione della parola rivelata deve rimane legge di ogni evangelizzazione” (GS, 44 § 2). Nel leggere la lettera ai Tessalonicesi, dunque, si comprende subito che l’intreccio della Parola di Dio e delle nostre parole degli uomini, è di per sé stesso “pastorale”, perché relazionale. Qualsiasi separazione che cercasse, da una parte, di isolare une dottrina immateriale e, dall’altra, di ridurre la pastorale a mera applicazione di questa dottrina, senza far intervenire ciò che è già all’opera nei destinatari, non sarebbe all’altezza della nostra tradizione e trasformerebbe, in ultima analisi, l’evangelizzazione in indottrinamento.

Theobald, Parole umane – Parola di Dio. Riflessioni teologiche e pastorali a partire dalla Costituzione

         Dei verbum del Concilio Vaticano II, Venegono – 21 aprile 2016

«Il principio del primato della grazia dev’essere un faro che illumina costantemente le nostre riflessioni sull’evangelizzazione» (EG 112). Questa luce, laddove la si lasci rifrangere in un discernimento cristiano, alimenta una puntuale vigilanza sulla duplice diabolica tentazione nella Chiesa: quella gnostica, quella pelagiana…


«Veniamo anche noi con te».
Esercizi di obbedienza cristiana


L’«Io vado a pescare» di Francesco echeggia in queste insistenze risolute del suo pontificato: rappresentano autentiche novità pentecostali della tradizione della Chiesa. In quanto tali, sorprendono, interrogano, spiazzano… Abituati ad assetti spirituali e a moduli pastorali collaudati, può capitare che il «Veniamo anche noi con te» non esca spontaneo; anzi, l’avvertire la sorpresa, il sentire perfino certo smarrimento è segno che abbiamo davvero ascoltato quel suo «Io vado a pescare» nelle sua audacia evangelica e nelle sue ragioni profonde. Come allora disporre il cuore sorpreso, a volte anche smarrito, a quella obbedienza fraterna e filiale a lui, così che il 25 marzo gli diciamo con sincerità «Veniamo anche noi con te»? Quali esercizi per una obbedienza cristiana che si smarchi fermamente da certe posizioni di attendismo o perfino di sospetto, da voci di dissenso che giungono talvolta a screditare la parola del papa?

* Maturando senza interruzioni la virtù della docibilitas: «disposizione ad imparare da chi è davvero maestro, nella misura in cui lo è e parla come tale» (T. Citrini).

* Un po’ di chiarezza: LG 25

«Tra i principali doveri dei vescovi eccelle la predicazione del Vangelo. I vescovi, infatti, sono gli araldi della fede che portano a Cristo nuovi discepoli; sono dottori autentici, cioè rivestiti dell’autorità di Cristo, che predicano al popolo loro affidato la fede da credere e da applicare nella pratica della vita, la illustrano alla luce dello Spirito Santo, traendo fuori dal tesoro della Rivelazione cose nuove e vecchie (cfr. Mt 13,52), la fanno fruttificare e vegliano per tenere lontano dal loro gregge gli errori che lo minacciano (cfr. 2 Tm 4,1-4). I vescovi che insegnano in comunione col romano Pontefice devono essere da tutti venerati quali testimoni della divina e cattolica verità; e i fedeli devono accettare [concurrere] il giudizio dal loro vescovo dato a nome di Cristo in cose di fede e morale, e dargli l’ossequio religioso del loro spirito. Ma questo ossequio religioso della volontà e della intelligenza lo si deve in modo particolare prestare al magistero autentico del romano Pontefice, anche quando non parla ex cathedra. Ciò implica che il suo supremo magistero sia riconosciuto con riverenza, e che con sincerità si aderisca alle sue affermazioni in conformità al pensiero e in conformità alla volontà di lui manifestatasi che si possono dedurre in particolare dal carattere dei documenti, o dall’insistenza nel proporre una certa dottrina, o dalla maniera di esprimersi».

Come si vede, alla parola di Pietro che esorta e insegna i credenti riservano un «religioso ossequio della volontà e dell’intelligenza», ossequio gravido di «riverenza», aderendo con sincerità alla sua volontà che affiora nelle parole più insistite di quel suo «Io vado a pescare».

Si noterà come non si parli di «ossequio della fede»: questo è riservato alla Parola di Dio. «A Dio che si rivela è dovuta l’obbedienza della fede…» (Dei verbum 5). Significa allora che l’ossequio religioso riservato al papa è tutto orientato ad assicurare la verità e la forza apostolica dell’ossequio della fede riservato al Signore e alla sua parola: l’obbedienza nella Chiesa è relativo all’obbedienza della Chiesa al Signore (che è la fede).

* Procedendo nell’obbedienza, tra disincanto e vigilanza… L’obbedienza nella fede è tutta orientata a propiziare e a sostenere l’obbedienza della fede, per la quale mi consegno tutto a Dio liberamente (cfr Dei verbum 5). Questa dinamica avviene dentro la comunità ecclesiale, il cui tesoro (il depositum fidei) non mi appartiene, né mi è «disponibile»: non ne posso disporre…

Nella relazione dell’obbedienza, cercata e praticata nella logica della fede, non vado assolutizzando la mia libertà (con le sue idee, intuizioni, pensieri, sensibilità…), poiché la familiarità con la Parola del Signore mi persuade del limite del mio punto di vista. Dall’altro lato, proprio contemplando nella Pasqua di Gesù il Deus semper maior, non identifico il giudizio di Pietro e di quanti «stanno con lui» con la Parola di Dio. Nel primo caso, infantilismo superbo, tipico di cristiani affetti dalla malattia dell’egocentrismo infantile, per cui divinizzano il proprio punto di vista in una rigidità narcisista, confondendo il proprio modo particolare di vivere la fede con il Vangelo stesso. Nel secondo caso invece, ecco un infantilismo irresponsabile: in una adulazione, che già Pietro aveva rifiutato e corretto, identifichiamo le parole del papa con la Parola di Dio, invece di ascoltarle come capaci di mediare, in un modo singolarmente autorevole, per noi e per tutti la Parola di Dio. Così veniamo via dalla nostra responsabilità inalienabile di ascoltare la Parola di Dio per obbedire nella fede al Signore…

L’opera del nemico. Papa Francesco più volte invita al discernimento: questo risulta prezioso, proprio per snidare la voce sinuosa del nemico che suggerisce commenti irridenti e sprezzanti sulla parola del Papa. E sappiamo che quanti si lasciano sedurre sono perlopiù tristi, immusoniti: segno che all’opera è davvero il nemico. Se lo Spirito di Dio dona la gioia, l’opera del nemico, tra le altre, è la tristezza…

  1. Il nemico porta via la parola (cfr la parabola del seme: il seme della Parola, caduto lungo la strada è «rubato» dagli uccelli), concentrando sul particolare e inducendo a trascurare la totalità del messaggio e il suo cuore che è il profumo del Vangelo (si veda, per esempio, quella concentrazione pregiudiziale sulla «apertura» discretamente indicata nel capitolo VIII di Amoris laetitia che spesso oscura l’interezza dell’esortazione apostolica con la sua passione evangelica
  2. Il nemico confonde e divide: contro la verità di Gesù Cristo, in cui la persona divina è unita alla natura umana inconfuse et indivise (secondo il dettato del Concilio di Calcedonia: …è questo un criterio tradizionale molto caro a Francesco): il nemico confonde e divide la Parola (divina) e la dottrina (sempre storica), confonde e divide il Vangelo (in cui il Verbo eterno compie per tutti la sua corsa) e il seme del Verbo già seminato nella storia di tutti…
  3. Il nemico poi divora il kairós (il figlio benedetto e santo che tutti salva, nella sua carne tenera), e divora il krónos (porta a non tenere conto del tempo, della storia di ciascuno con le sue tappe, i suoi passaggi (secondo l’intenzione del drago in Ap 12).

Laddove resistessero pulsioni e ragioni di dissenso? Nella logica dell’ossequio religioso, uno dovrebbe dire a Pietro e a ogni suo successore che dice «Io vado a pescare»: «Rispetto e accetto in un “ossequio religioso” l’ammaestramento del tuo servizio apostolico, pur sentendo certa insoddisfazione per accenti che non corrispondono alla mia sensibilità e alla mia lettura del Vangelo e della storia, pur non riuscendo ancora a vedere nitidamente le ragioni di questo ammaestramento, pur non sentendo «mio» questo modo di esercitare il servizio apostolico. Ma mi sforzo di ascoltare, resistendo a quelle opere del nemico e ricercando le ragioni del tuo parlare così… E riconosco che la tua mediazione è essenziale perché io ascolti e accolga la Parola alla quale desidero obbedire, perché io sia confermato nell’obbedienza della fede che fa la mia verità di uomo». E se uno dovesse proprio soffrire per un ossequio religioso che deve fare i conti una parola «decisamente altra» rispetto a quanto si aspettava e desiderava, si senta ancor più confermato nella fede, …conformato anche in questo modo al mistero di Gesù che ha imparato l’obbedienza dalle cose che ha patito (cfr Eb 5,7-10). (Su queste movenze dell’obbedienza cristiana si veda G. Moioli, Temi cristiani maggiori).

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Due testi che illustrano bene cosa non è la Tradizione.

«Man mano che un vocabolario della preghiera, delle leggi morali, delle formule dogmatiche sembra sgretolarsi fra le mani come una polvere del passato, per dire quello che sono non resta loro che il linguaggio degli altri e la protesta o la confessione di una solidarietà umana. Oppure, al contrario, per difendersi dalla tentazione, sono costretti a ribaltare quel­lo che combattono e, se sono conservatori lucidi, si rendono conto che si limitano a trasformare in un contrario del pre­sente il passato di cui si fanno forti; riducono la tradizione a essere soltanto l’opposto delle idee da cui deve preservarli».

de Certeau, Lo straniero o l’unione nella differenza, Vita e Pensiero, Milano 2010, 136.

 

«Voi vi dite sottomesso alla Chiesa, fedele alla Tradizione, per il solo fatto che obbedite a certe norme del passato, dettate dai predecessori di colui al quale Dio ha conferito oggi i poteri dati a Pietro. È come dire che, da questo punto di vista, il concetto di “Tradizione” che voi invocate è falso. La Tradizione non è un dato fossilizzato o morto, un fatto in qualche modo statico che bloccherà, in un determinato momento della storia, la vita di questo organismo attivo che è la Chiesa, ossia il corpo mistico di Cristo. Compete al Papa e ai concili dare un giudizio per discernere dentro le tradizioni della Chiesa ciò a cui non è possibile rinunciare senza infedeltà al Signore e allo Spirito Santo – il deposito della fede – e ciò che, al contrario, può e deve essere aggiornato, per facilitare la preghiera e la missione della Chiesa attraverso la diversità dei tempi e dei luoghi, per meglio tradurre il messaggio divino nel linguaggio di oggi e comunicarlo meglio, senza compromessi. La Tradizione non dunque separabile dal Magistero vivente della Chiesa, come non separabile dalla Scrittura santa […]»

Paolo VI, Lettera a M. Lefebvre, 11 ottobre 1976