Nella solennità dell’Annunciazione del Signore, nella chiesa intitolata a Santa Maria Annunciata, nell’antico complesso della Ca’ Granda che oggi ospita l’Università Statale – di cui gli Arcivescovi di Milano, secoli dopo secoli, sono parroci – l’Arcivescovo presiede la celebrazione per la Festa del Perdono.

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«In questi mesi di pandemia la dedizione generosa fino all’eroismo ha caratterizzato il personale sanitario. Non sempre è stato riconosciuto, non sempre le richieste di aiuto e la speranza di guarigione si sono espresse con il realismo e la comprensione che ci si possono aspettare. Talora invece di attese sono state pretese irrealistiche, talora il servizio prestato invece che un grazie ha ricevuto reazioni sgarbate. Anche questo interroga il principio del dono e chiede di essere disponibili a perdonare, a ricambiare il male con il bene, a continuare a professare: “Ecco, vengo per fare la volontà del Signore, che io possa essere un dono, in ogni circostanza e ambiente, sempre, per tutti”».

Di un «senso di gratitudine e di responsabilità per le tante Istituzioni che qui testimoniano del passato, del presente e di un futuro che si esprime nell’Università e nella ricerca sanitaria», parla l’Arcivescovo che annoda la sua omelia sul principio del dono, secondo il “sì” di Maria, contro ogni logica della paura e del “dare e avere”.

«Ci sono quelli che ritengono che il convivere umano sia costruito sulla paura» sottolinea aprendo la sua riflessione. «Chi può fa paura agli altri, si impone, comanda, minaccia e ne trae vantaggi. Chi è debole deve rassegnarsi, piegarsi al potere dei potenti, cercare di eseguire la loro volontà per non irritarli e attirarsi castighi, immeritati, forse, ma certo temibili e dolorosi, perché il potente agisce arbitrariamente e a suo capriccio. Ciascuno, poi, cerca di praticare lo stesso principio a coloro che sono più deboli di lui». E, così, il principio-paura che esiste tra gli uomini è stato trasferito anche nel rapporto con un Dio che, appunto, fa paura: «Perciò la religione è stata intesa come sottomettersi a un Dio imprevedibile, dove la ribellione è il peccato e la condanna è inappellabile».

E, poi, ci sono, invece, coloro che ritengono che la società sia tenuta insieme dal principio del mercato, dove tutto «deve essere contrattato, tutto si può vendere e comprare». Anche qui è venuto spontaneo trasferire il “principio mercato” nei rapporti con Dio. «Ho bisogno dell’aiuto di Dio e in cambio offro le primizie del campo e del gregge, il mio tempo, i miei servizi. Un principio di dare e avere che richiede una contabilità e, a tutti, di rispettare un contratto che anche Dio deve rispettare. La trasgressione, in questo principio-mercato, si chiama debito».

Ma a fronte di questi principi, oggi più che mai diffusi, c’è il dono. «Il principio del dono è una rivelazione che suggerisce di non riferire a Dio quello che si constata nella vita umana, ma, al contrario, di trasfigurare la vita umana a partire da Dio perché la vita è dono, è grazia. Il Figlio unigenito del Padre, vivo nell’eterna comunione con il Padre e lo Spirito Santo, introduce nella storia il principio che tutto è grazia. Così può rivelare il senso della vita umana: è un dono che può farsi dono, è frutto dell’amore che può vivere di amore».

La contemplazione del “principio del dono” diventa, allora, annunciazione, diventa vocazione: «L’intenzione che ha condotto alla creazione dell’ospedale è una risposta a questa vocazione. Un ospedale è un sistema complesso in cui si incontrano, si fecondano e talvolta si scontrano tante dimensioni: quella della malattia e della fragilità, della cura e dell’assistenza, della ricerca e della scienza, della politica e delle risorse finanziarie. La celebrazione della festa dell’Annunciazione è un invito a riconoscere che tutte queste dimensioni giungono alla loro verità, se continuano a ispirarsi al principio-dono. Hanno, cioè, un’anima e questa anima ispira tutta la vita». Uno “stile” – questo – «che qualifica i rapporti tra le persone, con i malati e tra gli operatori, che qualifica la ricerca, che orienta le scelte amministrative e gestionali». È lo stile «dell’amabilità e della benevolenza, della pazienza e della generosità, del rispetto delle persone e dei loro diritti, dell’accurata esecuzione del proprio dovere se, nella libertà, prendiamo la decisione di amare».