Uno sguardo sulla vocazione, dalla parte di Dio. Riflessione di don Michele Gianola.

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Aprendo i lavori della 71Assemblea Generale dei Vescovi Italiani, papa Francesco ha annunciato la sua preoccupazione per l’attuale “emorragia di vocazioni” che sta investendo la nostra penisola e tutto l’Occidente. Tale marcata sottolineatura non può che essere letta alla luce del grido accorato dello stesso Pontefice: «Non lasciamoci rubare la speranza!» (Francesco, Evangelii Gaudium, 86). È questo l’«elemento distintivo dei cristiani, il fatto che essi hanno un futuro […] e solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente» (Benedetto XVI, Spe Salvi, 2).

Da questa prospettiva, pertanto, mi sembra interessante considerare tale appello come l’impegno ad assumersi nuovamente la responsabilità che ci viene affidata, l’opera più importante della vita, la costruzione della vita stessa – il nostro futuro – come singoli e come comunità: «La nostra nascita spirituale è il risultato di una libera scelta e noi siamo in qualche modo i genitori di noi stessi, creandoci come noi stessi vogliamo essere, e per nostra volontà formandoci secondo il modello che scegliamo» (San Gregorio di Nissa, Vita di Mosè, 2,3).

Al balcone dei cieli

All’inizio della seconda settimana degli Esercizi Spirituali, sant’Ignazio di Loyola invita l’esercitante a contemplare «le tre Persone divine che osservano tutta la superficie ricurva del mondo popolato di uomini [e di guardare] gli abitanti della terra, così diversi sia nelle vesti che negli atteggiamenti: alcuni bianchi e altri neri, alcuni in pace e altri in guerra, alcuni che piangono e altri che ridono, alcuni sani e altri malati, alcuni che nascono e altri che muoiono, e così via [e vedendo che tutti si perdono] di ascoltare quello che dicono le persone della santissima Trinità: “Facciamo la redenzione del genere umano”» (EESS 100-107).

È consolante cogliere il frutto di queste parole che ci permettono di fare memoria della nostra vocazione, del tempo in cui siamo stati visitati, guariti, ricondotti dal Pastore all’Ovile della vita nuova; allo stesso tempo, ci consentono di accogliere l’intenzione come l’invito a collaborare alla medesima opera: “Facciamo la redenzione del genere umano” risuona nella storia con il comando di Gesù: «Andate e fate discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19) perché «è necessario che il Vangelo sia proclamato a tutte le nazioni» (Mc 13,10). Stupisce che il verbo usato per indicare la missione della Chiesa – “è necessario” – sia lo stesso di quello usato per la vocazione di Gesù (Lc 17,25) e che la Trinità voglia compiere la sua opera in sinergia con noi: «Anche dopo la resurrezione, quando i discepoli partirono in ogni direzione, “il Signore agiva insieme con loro” (Mc 16,20). Questa è la dinamica che scaturisce dal vero incontro» (Francesco, Gaudete et Exsultate, 136).

Al balcone dei cieli, lo sguardo dei Tre ha lo stesso orizzonte del deserto di Samaria nel giorno in cui la Redenzione è giunta per quella donna, al bordo del pozzo (Gv 4). Tra le pietre riarse dal sole di mezzogiorno un uomo partito da molto lontano, dal seno del Padre (Gv 1,2) vede biondeggiare – fuori stagione (Mc 11,13) – una messe abbondante (Gv 4,35) già pronta e che viene dal gesto della Samaritana che va ad annunciare ai suoi la forza dell’incontro con Gesù. L’amore è così, vede nel presente il futuro prossimo, contempla il passo in là, quello successivo del fecondo processo iniziato con il seme accolto della Parola. E noi possiamo godere la meraviglia del cuore di una donna (cf. Gen 2,8) che da deserto ritorna ad essere giardino e desiderare ancora di lavorare insieme, con passione e con vigore, certi che «la risurrezione del Signore ha già penetrato la trama nascosta di questa storia, perché Gesù non è risuscitato invano!» (Francesco, Evangelii Gaudium, 278).

Il ramo del pesco

Emorragia. Il termine evoca l’uscita del sangue dai vasi per lesione delle loro pareti. L’immagine aveva immediatamente portato a pensare alla crisi numerica delle vocazioni – in particolare quelle di “speciale consacrazione” – ma la metafora non è così sciocca. In effetti, era già stata usata dallo stesso papa Francesco in relazione agli «abbandoni nella vita consacrata» e da questa prospettiva la questione appare molto più seria, ma ci spinge ancora più in là. Il sangue non canalizzato si disperde e non arriva a nutrire l’organismo; un po’ come un fiume che senza argini perde di forza e diventa palude o di direzione e causa l’inondazione. Anche dal balcone dei cieli possiamo pensare che la preoccupazione sia la stessa perché la vita di nessuno è fatta per disperdersi, dissiparsi ma per giungere a compimento (Fil 1,6), per portare frutto (cf. Mt 25,14-30).

Intuiamo, così, che preoccuparsi della emorragia delle vocazioni non significa stare in ansia per i numeri quanto occuparsi che la vita di Dio – il suo sangue (Mc 5,25) – scorra con forza nelle vene; che la vita di ciascuno sia custodita nel suo amore, senza perdersi in cose vane (Mt 13,30) e diventare feconda. Fermare l’emorragia riguarda tutti: la vocazione è ricevuta come un seme il giorno del Battesimo e da lì inizia a germogliare, perché possa essere riconosciuta al tempo opportuno cosicché, individuati gli argini, la vita possa essere liberata con tutte le sue energie a compimento della propria missione.

I tessuti sono fatti per contenere ma nella vita molti sono i briganti nei quali possiamo incappare (Lc 10,30): abitano dentro e fuori di noi. Ferirsi o essere feriti è inevitabile; la soluzione non è quella di rendersi immuni dai rischi – non è possibile – quanto quella di prendersi cura, farsi prossimi, accompagnarsi gli uni gli altri perché «ciascuno possa vedere sorgere la propria luce come l’aurora» (Is 58,6). Prendersi cura della vita, ricucire il tessuto delle relazioni laddove si fosse lacerato, dire parole che curano, incoraggiano, sostengono, conducono nella carità; è costruire legami, da persona a persona (Francesco, Evangelii Gaudium, 129) condividere, un racconto, un gesto, una tavola, una preghiera; è non vivere da rivali, lottare insieme contro false illusioni, individuare e costruire il bene, adoperarsi perché ciascuno abbia una vita dignitosa, investire energie per rendere migliore il mondo che verrà. È fare con tenacia ed umiltà il lavoro che ci è affidato. È intrecciare la trama di quei legami che trascendono il tempo e lo spazio e che soli sono capaci di far trasparire la Comunione della Trinità, della quale già partecipiamo in un unico Corpo. È la Comunione (cf. Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, 43) la forza profetica capace di tenere insieme le pareti dure delle vene e delle arterie nelle quali può scorrere e giungere a pienezza la vita di tutto il mondo. Lavoriamo con energia allora, nella fiducia che la primavera non viene da noi, come sa bene chi coltiva il mandorlo.